Carbonio insaguinato: storie di indigeni ignorati
Un programma di crediti di carbonio nel nord di Kenya mette a serio rischio la sopravvivenza dei popoli indigeni, dediti alla pastorizia nomade. L’organizzazione Survival International ha pubblicato un report in cui denuncia il progetto, che ora è stato sospeso con l’accusa di greenwashing.
Un programma di crediti di carbonio nel nord di Kenya mette a serio rischio la sopravvivenza dei popoli indigeni, dediti alla pastorizia nomade. L’organizzazione Survival International ha pubblicato un report in cui denuncia il progetto, che ora è stato sospeso con l’accusa di greenwashing.
di Silvia Kasperkovitz
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È possibile che un progetto pensato per preservare l’habitat di un’area vada a ledere i diritti delle popolazioni indigene?
È il caso del programma di compensazione di carbonio Northern Kenya Grassland Carbon Project, gestito dall’organizzazione Northern Rangelands Trust (NRT), avviato nel 2013 e ancora in corso nel nord del Kenya, in un territorio abitato da oltre 100.000 indigeni appartenenti a popoli pastorali e nomadi.
L’organizzazione Survival International, nata proprio per proteggere i diritti delle popolazioni indigene, ha denunciato il progetto in un suo recente report “Blood Carbon: how a carbon offset scheme makes millions from Indigenous land in Northern Kenya” (Carbone insaguinato: come un programma di compensazione di carbonio ricava milioni dalla terra indigena nel nord del Kenya). Una pubblicazione, questa, che si è rivelata molto utile, dato che poco tempo dopo il progetto è stato sospeso.
Cogliamo l’occasione per elencare le caratteristiche e le problematiche del progetto kenyota, traendo parti dal report di Survival International, e per alzare la voce contro le ingiustizie a cui i popoli indigeni sono ancora soggetti, spesso in silenzio.
Il progetto è sulla carta molto ambizioso: preservare l’integrità del suolo e permettere alla vegetazione e agli alberi di ricrescere, in modo che possano “immagazzinare” maggiori quantità di carbonio. Infatti, il suolo è un gigantesco bacino contenitore di Co2 ed è quindi fondamentale avere un suolo sano in grado di svolgere questa funzione. Le tonnellate nette di carbonio sono poi rivendute, generando così un profitto molto alto:secondo il report, si parla di 41 milioni di tonnellate nette di crediti di carbonio vendibili per un valore lordo di almeno 300-500 milioni di dollari. Il progetto è stato descritto dalla Commissione Europea come il modello di riferimento per un prossimo, importante programma di finanziamento di progetti di conservazione in Africa chiamato “NaturAfrica”.
Il lato negativo è che, per permettere la rifioritura della flora, bisogna costringere le popolazioni indigene a stravolgere le loro pratiche di pastorizia. Come si legge nel report di Survival International, il progetto si basa sullo smantellamento dei tradizionali sistemi di pascolo dei popoli indigeni e sulla loro sostituzione con un sistema controllato a livello centrale, più simile all’allevamento commerciale. Secondo gli ideatori, questo permetterebbe un maggiore stoccaggio di carbonio, e quindi un profitto maggiore. Tuttavia, impedendo la pratica tradizionale della migrazione durante la siccità, verrebbe messa a rischio la sicurezza alimentare dei popoli pastorali locali.
Il progetto è inoltre poco o per nulla chiaro su molti punti. Per prima cosa, non ci sono evidenze empiriche che la pastorizia nomade, praticata dagli indigeni, contribuisca all’impoverimento del suolo: di conseguenza, perché gli indigeni dovrebbero cambiare stile di vita? In secondo luogo, le comunità indigene non sono state né consultate né informate preventivamente del progetto ma sono state semplicemente completamente ignorate.
Inoltre, il progetto non presenta argomentazioni credibili sulla sua addizionalità di carbonio, ossia un principio fondamentale per la generazione di crediti di carbonio che si basa sul presupposto che le forme tradizionali di pascolo degradino il suolo, e che solo il programma di crediti di carbonio possa porvi rimedio. Ancora una volta, non c’è alcuna evidenza empirica, e per di più la qualità della vegetazione è peggiorata dall’avvio del programma.
Infine, non è chiaro se NRT ha ottenuto i diritti per commercializzare e rivendere i profitti derivati dal carbonio immagazzinato nelle Conservancies, le riserve dove vivono i nativi: ciò significa che la zona in cui dovrebbe svilupparsi il progetto non ha confini precisi.
Cosa si sarebbe dovuto fare in questi casi? Le comunità indigene andavano propriamente avvisate e informate, considerando che sono direttamente colpite dal Carbon Project stesso. La loro esclusione evidenzia quanto ancora i popoli indigeni non vengano propriamente coinvolti nelle iniziative economiche che sono attuati nelle loro terre; ne risultano completamente esclusi, come se non valessero niente.
Che cosa traiamo da questa storia? Che la presunzione capitalistica, secondo la quale i popoli nativi non siano in grado di vivere autonomamente, persiste ancora oggi. Questa presunzione, figlia del mito del salvatore bianco, pretende di andare ad insegnare ai popoli nativi come vivere, dimenticando che questi ultimi vivono in quella terra da millenni e la conoscono molto bene. Come ricorda Survival International, l’evidenza scientifica dimostra che “i popoli indigeni comprendono e gestiscono i loro ambienti meglio di chiunque altro”: ben l’80% della biodiversità della Terra si trova nei loro territori. Per proteggerela, quindi, il modo migliore è quello di rispettare i diritti territoriali dei popoli indigeni, i migliori conservazionisti, e abbandonare qualsiasi presunzione di superiorità cosiddetta civilizzata.
Benché il progetto sia stato sospeso, non possiamo sapere quale sarà il suo futuro. Occorre scrollarsi di dosso la narrazione del salvatore bianco, che è ancora radicata, e capire che i popoli indigeni sono coloro che più di tutti conoscono la loro terra e la sanno rispettare. Purtroppo, come si è visto in questo caso, il profitto a volte prevale sui diritti. Almeno per il momento i nativi potranno continuare ad allevare il bestiame secondo le loro tradizioni, in attesa di una decisione che sarà presa a centinaia di chilometri di distanza.
Qui il link del report redatto da Survival International.