Verso il consumo solidale e partecipato: l’emporio di comunità a Trento
Abbiamo intervistato Valentina Merlo, presidente del Gruppo di Acquisto Solidale Richiedenti Terra. Lei ci parla del progetto tutto in divenire di un supermercato partecipato e solidale anche a Trento.

Valentina Merlo, presidente del Gruppo di Acquisto Solidale (GAS) Richiedenti Terra, dal 2011 si occupa di gestione orti comunitari. In questo periodo hanno avuto tre progetti, di cui uno dal 2012 è ancora attivo, che è un orto sociale e comunitario a Villazzano. E non solo. Il suo GAS raggruppa circa un centinaio di famiglie, di soci. Richiedenti Terra si occupa di temi di consumo critico, agro-ecologia, ecc., e insieme ad altre realtà fanno parte di Trento Consumo Consapevole che è la rete di GAS di Trento e dintorni
“Sono vari anni che seguo queste tematiche, nel tempo libero. Per interesse avevo cominciato a partecipare a livello nazionale, dal 2013 credo, a Terre Resistenti e dal 2015 alla rete nazionale di Genuino Clandestino, di cui poi parleremo, perché è da lì che per la prima volta ho sentito parlare di mercati comunitari”, ci racconta.
Valentina insieme al altre 11 persone da una annetto hanno cominciato ad incontrarsi per fare qualcosa di nuovo per il consumo critico, che potesse attirare persone anche fuori dalle classiche strutture dei GAS.

In questa intervista lei ci racconta in che cosa consiste il loro progetto di emporio di comunità, come quello in divenire anche ad Arco, come abbiamo illustrato qui su falacosagiustatrento.org nel mese scorso.
Il motivo per cui avete deciso di andare oltre i GAS è stato quello di allargare la platea a cui questo progetto vorrebbe rivolgersi o c’erano anche delle insofferenza per alcune dinamiche dei GAS?
Diciamo che come gruppo siamo vari, non tutti dello stesso GAS, e non tutti super attivi nei GAS, ma siamo comunque attivi in ambito solidale. Siamo un gruppo misto, con idee diverse: la chiave di tutto è stato il consumo partecipato.
Il nostro è un GAS che tutto sommato funziona, abbastanza partecipato, anche se alcune cose sono più sulle spalle di poche persone, come il controllo dei conti, e le cose un po’ più logistiche, no? Per esempio io riesco a non andare mai al supermercato, ci vado poche volte all’anno, solo per cose che non si trovano: e un GAS funziona bene, se riesco a trovare tutto, no?
E poi abbiamo continuamente richieste di gente che vuole entrare, ma un GAS non può allargarsi all’infinito, diventa difficile da gestire. Anche se noi abbiamo un luogo fisico, che è il Centro Sociale Bruno, però facciamo ordini molto grossi perché siamo in cento e diventa faticoso, anche perché è tutto volontariato. Quindi diciamo che sì, c’è ricerca di ampliare platea e di fare progetto più partecipativo, quindi non una critica totale dei GAS ma un’evoluzione.
Questo era quello che diceva un po’ anche Sergio Adamo, uno dei soci fondatori dell’emporio di comunità Camilla di Bologna, che abbiamo avuto occasione di incontrare ad Arco durante gli appuntamenti del pre-fiera di Fa’ la cosa giusta! Trento. Quanto è stato d’ispirazione per voi il progetto di Bologna?
Ovviamente tantissimo! (Ride) Nel senso che io appunto ho cominciato a sentir parlare di supermercati cooperativi o emporio cooperativo (come l’hanno chiamato loro) tre anni fa, in un’assemblea nazionale di Genuino Clandestino, e loro stavano veramente solo iniziando a pensare (quindi forse un po’ più di tre anni fa). Era del tipo: in America fanno questa cosa, a Bruxelles anche, noi ci vogliamo provare. E io sono stata subito entusiasta! Poi, da lì a dire: “Lo facciamo!”, non è stato proprio immediato. Loro nel frattempo hanno lavorato anni, hanno fatto un lavoro da apripista per tutti quelli che vogliono fare gli empori di comunità, perché si sono studiati tutta la parte burocratica, di leggi, assicurativa, INAIL, INPS, di tutto! (ride)
Sì, infatti ad Arco Sergio parlava di un garbuglio dal punto di vista legislativo: non c’erano modelli neanche per le istituzioni per capire in che categoria rientrassero, che legislazione si applicasse. Diceva che sono stati dei pionieri.
Sì! Per noi è stato un po’ diverso perché il nostro progetto non è nato direttamente come food coop: c’era un bando del comune che dava a disposizione tre locali gratis per dei progetti, e noi ci ronzavamo attorno da anni. Siamo andati a vedere i locali, e da lì è partito tutto.
Poi abbiamo deciso di non partecipare al bando perché gli spazi non erano adatti per il nostro progetto, però quello è stato l’avvio. Eravamo diversi, c’era un ragazzo che ha aperto il primo negozio bio a Ferrara e quindi aveva gestito uno dei primi negozio bio, e poi persone varie, un imprenditore informatico, ecc, non siamo tutti nello stesso gruppo. Poi perché questo piccolo gruppo? Un po’ per caso! Perché in quel momento avevamo tempo da dedicare a questo progetto. Perché in Trentino ci sono molte persone interessate, che verranno coinvolte nella costruzione, ma allora eravamo noi ad avere il tempo. Ci incontravamo due volte al mese, e abbiamo avuto tempo di scrivere qualcosa, pensare un progettino, impostarlo, mettere le basi, aprirlo ad altre persone interessate. Noi di fatto non abbiamo costruito niente: abbiamo fatto delle ricerche, scritto delle idee e pensato un possibile modello, però tutto da confermare e fare insieme.
A che punto siete arrivati? Come state andando avanti, come intendete dare corpo al vostro progetto? A proposito, io continuo a chiamarlo progetto, ma c’è un nome definitivo?
Non ha nome definitivo, l’abbiamo chiamato emporio di comunità (preso da Camilla), ma solo per capirci. È per dargli una forma. E con questo nome abbiamo deciso che il nostro avvio doveva essere la Fiera Fa’ la cosa giusta! Perché bisogna darsi una meta a volte, no? E la nostra meta era Fa’ la cosa giusta e noi siamo arrivati lì vicini ed è stata annullata, proprio la settimana prima.
Lì l’idea era partecipare con un gazebo e vedere quanta gente avrebbe manifestato interesse attraverso un modulo da compilare su cellulare, o anche cartaceo che avremmo avuto lì. Essendo stata annullata la fiera, abbiamo mandato in giro il modulo alla rete dei nostri contatti stretti e meno stretti, per vedere che effetto facesse.
Così abbiamo inviato un messaggio Whatsapp, una mail, ai nostri contatti, a tutti i GAS del Trentino, a quelli più lontani per informazione, agli altri per le adesioni, e in neanche un mese, senza neanche fare tanta pubblicità, siamo arrivati a 160 persone che hanno compilato il modulo: e già questo è stato un bel segnale che c’è voglia, c’è voglia di fare qualcosa di nuovo. Non sono, tra l’altro, tutti gasisti: c’è un po’ di tutto, c’è chi viene dal sociale, dal cittadino qualunque, poi in questa primissima fase è chiaro che stiamo raccogliendo contatti di persone che sono già leggermente sensibili, perché sono le nostre cerchie. Però il messaggio è girato, e di queste persone, una quarantina ha espresso il desiderio di partecipare già adesso alla costruzione del progetto. Nel modulo noi abbiamo chiesto vari livelli di interesse: se era solo un interesse ad essere aggiornati sul progetto, a diventare soci quando verrà aperto, se verrà mai aperto, ecc. Però quaranta persone hanno detto: “Vogliamo partecipare in prima persona”, quindi è un ottimo risultato.

Quindi anche alla parte di progettazione prima di aprirlo effettivamente?
Esatto. Adesso abbiamo pensato di procedere in questo modo. Faremo una convocazione di un’assemblea su internet (purtroppo). L’idea era di partire con una grande assemblea aperta, di persona, ma non è possibile. Il fatto di attendere fino a chissà quando non ci piaceva. L’emergenza sanitaria non permette di individuare quando potremo ripartire.
Perciò avete preferito muovervi comunque, con i mezzi che ci sono?
Esatto. Potrebbe anche essere un’occasione! Sarà sicuramente più difficile, più faticoso, chissà se le persone si innamoreranno comunque del progetto. Però io credo che ci saranno delle buone basi, anche con tutti gli strumenti che ci sono. Con internet ci sono varie possibilità di fare gruppi di lavoro all’interno di una chiamata, di scrivere insieme delle cose. Insomma, strumenti ce ne sono, vanno scoperti, va scoperto come vanno utilizzati, ed è per questo che il nostro gruppo si sta un po’ preparando per dare all’assemblea delle indicazioni.
Quindi, a chi ha compilato il modulo arriverà adesso la convocazione per l’assemblea questo mercoledì 9 dicembre che è un primo incontro: sarà un incontro di presentazione per dire okay, ci siamo, partiamo. Poi da lì l’idea e di fare dei gruppi di lavoro, per occuparsi delle varie tematiche specifiche: qualcuno che faccia analisi economica, chi fa più parte della comunicazione e della ricerca di persone interessate, ecc.
Secondo l’ossatura che avete immaginato voi undici del primo gruppo, con anche tutti i contributi delle persone che parteciperanno, che aspetto avrà il vostro progetto? Come funzionerà? In astratto, come ve lo siete immaginato?
Secondo me ognuno se lo immagina un po’ diversamente, è anche quello il bello (ride). Io ovviamente sono quella che vede sempre le cose positive (ridono di me perché sono quella super ottimista), quindi io mi immagino un posto incredibile!
Però quello che ci si immagina di base è un emporio, un negozio cooperativo dove sia possibile acquistare tutto, o quasi tutto quello di cui una famiglia o una persona ha bisogno quotidianamente, quindi dall’alimentare, ai detersivi, alla carta igienica (adesso ti dico quello che mi viene in mente), sia fresco che a lunga conservazione, con meno imballaggi possibili, più possibile a km0. Ma non di tutto, ovviamente, è impossibile, quindi km0 fisico ma anche “politico” come ci piace chiamarlo, cioè una vicinanza di intenti, di ragionamenti, e raccogliere tutta una serie di progettualità. Certo, abbiamo pensato a un minimo di criteri e quelli vorremmo mantenerli, cioè prodotti ecologici, biologici o in conversione biologica (qui dovremmo aprire tutto un discorso veramente ampio) non per forza con certificazione, ma che vadano verso quella direzione. Dove non ci sia sfruttamento delle persone, degli animali, tutta una serie di garanzie.
A proposito di garanzie, pensavate di accogliere prodotti certificati da altri enti attenti al consumo critico, come Altromercato?
Sì, anche quelli e prodotti di cooperative sociali, antimafia. Non vorremmo che diventasse una cosa d’élite, con prodotti solo costosi. Il fatto di essere una cooperativa significa proporre il prezzo giusto per tutti. Il fatto che tutti i soci facciano almeno tre, quattro ore di volontariato al mese all’interno dell’emporio consente di abbattere i costi, anche per il fatto di avere pochi dipendenti.
Per avere solo i costi fissi ed eliminare i costi degli intermediari che incidono sul ricarico del prezzo sul prodotto?
Sì, esatto. Il problema del biologico è che alcuni ne parlano male o non lo valorizzano, e si chiedono perché dovrebbero comprare qualcosa che costa così tanto? Perché in effetti nei negozi biologici costa molto. Io vedo che già col GAS, dove prendiamo tutto biologico, comprando direttamente dal produttore, i costi scendono molto. Quindi non vorremmo lasciare fuori nessuno, ma certo il prezzo non sarà mai quello del discount, perché il prezzo del discount non è il prezzo giusto, cioè che consenta al lavoratore e al produttore di vivere degnamente e di pagare degnamente i suoi dipendenti. Quindi noi non vogliamo avvicinarci a quel modello, che implica sfruttamento o della persona, o dell’animale, o del territorio.
Cos’atro avete in mente oltre all’emporio?
Un’altra cosa che ci immaginiamo è la parte culturale. Vorremmo creare un’officina culturale di scambio, crescita, esperienza, per conoscere i produttori, il territorio, le esperienze che seguono i nostri ideali. Un luogo dove si possa anche fermarsi, bere un tè, stare seduti a leggere qualcosa. Poi qui si aprono mille possibilità di collaborazione con altre realtà, anche con la fiera Fa’ la cosa giusta, per fare delle cose. Idealmente vorremmo che fosse anche un’”attrezzoteca”, o “stoviglioteca” dove prendere in prestito materiali non usa e getta per le feste, o per prendere in prestito strumenti per riparare una bicicletta, o altro.

Come luogo fisico, dove pensate di stare? Volete rimanere al Bruno come il GAS o pensavate di trovare un altro luogo adatto alle vostre esigenze?
Io penso che sul luogo vada fatto un ragionamento. Nel posto dove siamo adesso non ci sono proprio gli spazi per il progetto, quindi ci sarà una ricerca del luogo giusto. Sarà anche la cosa più difficile perché il costo del luogo ovviamente influisce molto sul ricarico e su quanto le persone possono effettivamente fare parte di questo progetto e poterselo permettere. É una questione delicata. Non ci siamo dati limiti: possiamo bussare anche alle porte dell’amministrazione, qualsiasi realtà che sia disponibile. Ci piacerebbe rimanere a Trento, non proprio in centro storico anche per raggiungerlo. Dovrebbe essere uno spazio che si raggiunge con i mezzi pubblici e in bicicletta, che sono le cose che vogliamo incentivare, però deve essere raggiungibile anche in macchina, per le persone che fanno acquisti grossi. Trento non è molto semplice per questo. Sarà uno scoglio.
Magari trovate qualcuno durante l’assemblea che vi dice che ha un garage sfitto da mettere a disposizione!
Sì, speriamo! Puntiamo molto sui contatti. E per questo sarebbe anche bello avere diverse professionalità: chi si occupa delle questioni legali, di privacy, informatica, l’agronomo. Un passaggio di competenze da chi è più esperto a chi lo è meno. Vediamo! É tutto da scoprire.
Credete di riuscire ad offrire tutto quello di cui una persona può avere bisogno (e che sceglie consapevolmente di far parte di questo progetto)? Pensate di riuscire a sostituirvi alla distribuzione organizzata, e che il vostro modello possa diventare una realtà ancora più diffusa?
Credo di sì, che possa espandersi. È comunque più faticoso. Perché al supermercato posso andare come voglio, quando voglio, senza prendermi nessuna responsabilità. Invece noi chiediamo alle persone di fare un ragionamento, no? Non è una cosa che tutti vogliono fare, e non puoi obbligare a farlo. Ma se riusciamo ad aprire, se aprono altri luoghi come il nostro, si spingono anche gli altri supermercati a fare un ragionamento. Io non credo che riusciremo mai ad eliminare la grande distribuzione organizzata, perché è un potentato economico, ha tanti soldi, perché sa come vendersi anche nel suo lato green, ci vuole un attimo a fare greenwashing con iniziative sociali.
Quindi le persone che non hanno voglia di impegnarsi accettano quel tipo di sistema lì. Oppure ci sono proprio quelle persone che non possono perché sono a loro volta in una catena di sfruttamento, e non arrivano a fine mese, le cose costano tanto e allora si chiedono perché devono pagare quel prezzo, si dicono: “non ci sto dentro, non ce la faccio”. È una catena dello sfruttamento: io lavoratore sfruttato vado a comprare cose prodotte tramite una catena di sfruttamento e continuo ad alimentarla. È una catena, è difficile da spezzare, adesso non è che il capitalismo da un giorno all’altro migliora improvvisamente perché ci sono dieci foodcoop in Italia.
Però se il modello funziona qualcosa potrebbe cambiare: se tutta una serie di persone si tira fuori dalla distribuzione organizzata e fa vedere che questo modello diverso funziona, allora qualcosa può cambiare. Di fatto anche la grande distribuzione adesso offre sempre più biologico, sempre più km0, ha già preso delle nostre tematiche, e le ha prese perché fanno mercato.
Come si fa a parlare a queste persone inserite nella catena dello sfruttamento? Come si fa a sganciarle dal circolo vizioso? Già è difficile agganciare persone che “si possono permettere” di acquistare bio (anche nei canali della grande distribuzione). Qual è la vostra strategia per avvicinare invece una persona che ha proprio un problema economico?
Su questo non abbiamo ancora una strategia, perché è ancora tutto da costruire, però vogliamo tenerlo come punto. Sarà un focus, non vogliamo abbandonare l’idea che vogliamo parlare anche a chi non parla la nostra lingua. Per questo io vorrei che ci fosse un gruppo che si preoccupi di creare una linea di prodotti, sempre mantenendo i nostri criteri, che sia accessibile. Per questo la parte culturale è fondamentale, per far capire la situazione qual è, ma ci vuole molto tempo. Io vedo che è anche difficile farlo a volte con persone molto vicine a me. Non è un linguaggio comune. Anch’io ci ho messo molto tempo ad arrivarci, con oggi sono otto anni che sono nell’ambiente, non è che da subito sono stata radicale.
Ti sei “radicalizzata” nel tempo?
Mi sono radicalizzata nel tempo! (ride) Radicalizzata nel senso che sono andata sempre più a fondo nelle scelte, nella comprensione del fenomeno, che ho anche studiato. Non radicalizzata nel senso che mi porta a disprezzare le persone che non hanno fatto le mie stesse scelte e non la pensano come me. Bisogna leggere, studiare, capire il fenomeno, interiorizzarlo.
Facciamo una domanda un po’ accademica: qual è la persona o il libro che ti ha fatto intraprendere il tuo percorso, e che ti ha fatto arrivare fin qui? Lo chiedo perché molte persone sono indecise sul consumo consapevole, non sanno da dove cominciare e magari decidono di partire da un approccio teorico.
Allora, quello che mi ha cambiata è stato il mio anno di Erasmus in India, dove ho visto gli effetti devastanti di uno stato di fatto colonizzato, perché lì è arrivato tutto quello che da noi non è arrivato: gli OGM, i prodotti chimici, i prodotti di sintesi che noi non utilizziamo più. Lì ho avuto la possibilità di fare un periodo nella fattoria di Vandana Shiva, dove ho fatto ricerca per la tesi. Io sono laureata in Scienze Politiche (a Forlì), poi ho fatto la magistrale in Mass Media e Politica, con una tesi sulla comunicazione della sostenibilità agroalimentare prendendo un caso indiano e l’Italia.
I libri che mi hanno convinta della necessità del consumo consapevole sono sicuramente un libro sulle sementi di Vandana Shiva, uno di Raj Patel, I padroni del cibo, e uno di Stefano Liberti, I signori del cibo. Quello di Raj Patel soprattutto è stato scioccante perché non ne sapevo nulla, quindi partire da zero ed arrivare a quello mi ha fatto capire che qualcosa non funziona. Quelli di Liberti sono anche molto leggibili, non sono dei trattati, sono più storie.
