Per cambiare dobbiamo scegliere di perdere tempo?
Il sistema produttivo attuale ha intaccato la nostra concezione del tempo, attraverso meccanismi di sfruttamento e svalutazione della cura.
Di Emanuele Pastorino.
“Non c’è soluzione al problema ambientale senza una redistribuzione che non sia solamente di denaro ma anche di tempo”: così ci ha detto Francesca Forno, quando l’abbiamo intervistata alcune settimane fa. “Il tempo è una risorsa molto importante: chi ha tempo e non necessariamente solo denaro può cambiare il suo stile di vita. Chi non ne ha e deve fare tre lavori non ha questa possibilità”.

In quanto risorsa, il tempo è a rischio: abbiamo già raccontato come il nostro sistema produttivo sia basato sull’estrazione e lo sfruttamento di risorse, siano esse persone, territori o materie prime. Da questo punto di vista, viviamo in un contesto sociale e culturale che è abituato a nutrirsi del tempo, un’erosione che ha come obiettivo il tempo libero, quello riconosciuto e tutelato oggi grazie a lotte sindacali che hanno portato alla conquista della giornata lavorativa di otto ore, quello che una volta veniva chiamato otium – il tempo dell’inattività e della non redittività (1).
Tempo come risorsa: oggi, però, viviamo un momento storico che sta rimescolando ancora una volta le carte. A fronte dell’orario di lavoro imposto per legge, sono nati nuovi meccanismi di sfruttamento come l’intensificazione dei ritmi lavorativi e l’intrusione del lavoro nella vita quotidiana.

“Il paradosso è infatti che, sebbene il tempo a disposizione per le attività non produttive sia aumentato rispetto al passato, si è ormai innescato un processo irreversibile di accelerazione di ogni aspetto della nostra vita” (2 ) che lo assedia, lo distorce e lo trasforma nuovamente in tempo produttivo: durante gli ultimi quarant’anni abbiamo interiorizzato l’idea – allarmante – per cui non ci siano alternative al modello di sviluppo presente. Allo stesso tempo, abbiamo percepito di vivere (e, in parte, percepiamo ancora) in società assediate, ossessionate da minacce costruite a tavolino, una “società disciplinare”(3) in cui l’individuo è portato in qualche modo ad obbedire sempre.
“Prima il dovere” e altre forzature
Oggi questa dimensione è cambiata ancora: iperattivз e ipernevroticз(4), siamo immersi in una quotidianità intensissima dove si intrecciano, indistinguibili, una serie di atteggiamenti e di situazioni dalle quali fatichiamo ad emanciparci. Quella società fondata sulla disciplina ha lasciato spazio ad una fondata sulla “prestazione”: non è più tanto il “dover-fare” che ci spinge, quanto il “poter-fare”.
Progresso infinito, senza alternative, che pone nel “fare il proprio dovere” il fine ultimo di ogni individuo nella società. Questo quadro è quello che fa sì che “permettiamo che il lavoro assuma un ruolo così preponderante nelle nostre vite, credendo non solo che lavorare garantisca la nostra sussistenza e quella dei nostri cari, ma che avere un buon impiego significhi avere uno scopo, perseguire un obiettivo, fare qualcosa di buono per la società”(5).
E, in questo contesto, emerge il tema della produzione e dei diversi modi che abbiamo di guardare ad essa: da una parte, quella che è diventata un nuovo principio organizzatore della vita, onnipresente e pervasiva, fatta di sfruttamento, svalutazione della cura, distruzione degli strumenti di welfare pensati per bilanciare i ritmi – i tempi – di vita delle persone.
Dall’altra, c’è un modo di produrre sostenibile e consapevole, che guarda alle risorse in modo ragionato, che concepisce il tempo anche al di là della sua natura produttiva: in questo senso, ci vengono in soccorso alcuni ragionamenti che, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, hanno attraversato il dibattito filosofico, politico e culturale, europeo ma non solo.
Al tempo produttivo è stato, da sempre, contrapposto un tempo diverso, quello riproduttivo, fatto di attività che, anche se non generano profitto, “[sono] comunque necessari[e] sia per la serenità dell’individuo (e quindi la sua efficienza sul luogo di lavoro) che per l’effettiva continuazione del sistema”(6).
Attività come l’amore, gli affetti, la noia, l’ozio(7), lo svago: tutto quello che, insomma, non è produttivo. O, almeno, non lo è secondo criteri che privilegiano la quantità, il profitto, il consumo rispetto alle altre attività e qualità umane.
Il punto critico, però, si raggiunge nel momento in cui il lavoro – focus del tempo produttivo – si inizia a confondere con il tempo libero(8). Se negli anni ‘50 Marcuse osservava come questa invasione generasse un ciclo continuo di mercificazione, in cui produciamo per consumare. Oggi questo schema è diventato molto più complesso: la mercificazione non è scomparsa, anzi è diventata via via più pervasiva, al punto che “le nostre vite si sono trasformate in progetti di cui siamo gli unici responsabili, sia che finiscano bene sia che falliscano”9 e, così, finiamo con lo sfruttare noi stessi.
Incuria di noi
In mezzo a questa trasformazione, abbiamo vissuto anni di “globalizzazione dei rapporti sociali fondati sul denaro”(10): questa forma di relazione si rispecchia in un altro tratto caratteristico del nostro sistema di produzione, ossia l’incuria11. Bisogna fare attenzione: osservare questi tratti del nostro sistema non significa certamente rimpiangere i bei tempi andati (c’è un libricino di Michel Serres che racconta in modo ironico e preciso perché quella forma di nostalgia sia insensata(12)). Piuttosto “comporta ammettere la nostra reciproca interdipendenza, accettare le ambivalenze al cuore della cura, assicurare una redistribuzione egualitaria dei ruoli [e dei tempi, ndr] di cura e superare l’idea che si tratti di lavoro improduttivo”(13).
Si tratta, ancora una volta, di fare una scelta: negli ultimi due anni abbiamo sperimentato attivamente cosa significhi “incuria”. La pandemia, da questo punto di vista, è stata un sintomo troppo evidente per essere ignorato. Almeno in teoria.
Sì, perché in realtà già prima i segnali erano davanti ai nostri occhi ma, ad ogni alluvione, terremoto, incendio, ad ogni grado in più, ogni metro in meno di banchisa, ad ogni guerra scoppiata perché le risorse naturali sono sempre meno accessibili, abbiamo sempre trovato delle vie di fuga, osservazioni consolatorie che ci hanno assolto, di volta in volta, dall’idea che siano state le nostre scelte a determinare ciò che stava avvenendo.
Scelte che non riguardano il “solo” consumo: le nostre vite sono diventate dei progetti in costante aggiornamento e trasformazione e ciò che le caratterizza è la quantità di tempo, soverchiante, che dedichiamo al lavoro – e, quindi, a renderci produttori – rispetto ad ogni altra attività. “A cosa stiamo lavorando esattamente? Per cosa impieghiamo le nostre energie quando lavoriamo? Quale trasformazione del mondo com-portiamo con il lavoro che facciamo ogni giorno e in che quantità? Questa trasformazione è davvero necessaria? È desiderabile?”(14): sono alcune delle domande che si fa Christophe Meierhans, artista impegnato in lotte per la giustizia sociale e climatica, domande anche queste non certo nuove ma che, ad ogni giro della storia, si pongono in maniera più forte.
Produrre/lavorare/consumare meno, ma farlo tuttз
Le Nazioni Unite, il 9 aprile 2020, hanno pubblicato un report sulla condizione femminile e l’impatto che la pandemia stava avendo nei confronti di donne e bambine. L’osservazione che ne emerge è amara: “la crisi globale del Covid-19 ha reso ben visibile il fatto che le economie formali mondiali e le nostre vite sono sorrette dal lavoro invisibile e non pagato di donne e bambine”(15).
Il rapporto Oxfam “Time to Care” pubblicato nel gennaio 2020 (e, quindi, senza considerazioni sulla pandemia che stava iniziando in quel momento), indica come non più rimandabile una profonda trasformazione dei nostri sistemi economici: la fotografia del report evidenzia come le disuguaglianze economiche crescano senza controllo, in un mondo dove 2153 miliardari possiedono più ricchezza e benessere che 4,6 miliardi di persone.
Secondo il rapporto, adottare una prospettiva femminista è un passaggio fondamentale per ripensare il modello economico neoliberista. Partendo da questo punto di vista, è possibile “mettere in discussione ciò a cui diamo valore nella società e perché lo facciamo – chiedendoci il perché, ad esempio, nel nostro sistema produttivo abbia più valore aumentare i profitti dei super-ricchi o generare emissioni e gas serra rispetto a prendersi cura dei bambini, dei malati o degli anziani”(16).
Il collegamento tra tempo, cura e il modo in cui concepiamo il nostro sistema produttivo non è certamente un fatto nuovo: in Italia (e in Trentino(17)), la legge che si occupa di conciliazione della vita familiare e di diritto alla cura regola anche i “tempi della città”18. L’intera legge è molto complessa ma due elementi, per quanto riguarda le regole che lo Stato ha deciso di darsi con riguardo al tempo, sono particolarmente interessanti: il primo, riguarda la scelta di adottare anche nel linguaggio della legge la distinzione tra tempi “di vita” e “di lavoro”. Oltre a essere un’espressione del linguaggio comune, indica la scelta di distinguere i due aspetti, di dare loro lo stesso valore, in un certo senso “uguale e contrario” visto che si escludono a vicenda.
L’altro aspetto interessante è lo scopo con cui vengono istituite le banche del tempo: questi strumenti, che in Italia risalgono al 1992 e che, quindi, non sono un’invenzione di questa legge, hanno come scopo quello di “promuovere un nuovo concetto di solidarietà sociale attraverso lo scambio di saperi e abilità, utilizzando il tempo, e non il denaro, come misura dello scambio e intervenendo nei bisogni quotidiani dei propri iscritti e/o soci”(19).
Se non è un fatto nuovo, se a livello globale tutto fa pensare che non sia ancora maturo il tempo per dar vita ad una transizione verso un sistema produttivo meno predatorio, quello che la pandemia sta restituendo è una consapevolezza più diffusa rispetto al passato, che ridà invece valore al tempo, al di là del lavoro. “Durante il lockdown”, ci raccontava ancora Francesca Forno, “molte interviste per Nutrire Trento Fase 2 hanno fatto emergere come, avendo più tempo, le persone siano tornate a fare cose: una signora, in particolare, ha imparato a fare il pane ed è diventata brava. Oggi che sono ripresi i ritmi più normali, continua a fare il pane: una volta che ti reskilli (ossia impari nuove competenze), riesci ad incorporarla nelle pratiche della società accelerata. Certo, se decelerassimo sarebbe meglio”.
Si tratta, ancora una volta, di fare una scelta: anzi, di fare delle scelte. Non basta – non è mai bastata – l’azione individuale: “per risolvere il problema della crisi della cura, la soluzione è solo una: cambiare. Cambiare il sistema, cambiare i paradigmi del lavoro, del tempo, della condivisione dei ruoli e dei compiti”(20).
Individuale e collettivo, interdipendenti e consapevoli. Serve tempo e non è vero che non ne abbiamo: serve scegliere diversamente come viverlo.
Fonti
1. Davide Mazzocco, Cronofagia. Come il capitalismo depreda il nostro tempo, D Editore, Roma, 2019.
2. Jennifer Guerra, Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario, Bompiani, Firenze, 2021, pp. 31-53.
3. Michel Foucault, La società disciplinare, Mimesis, Milano, 2010.
4. Byung-Chul Han, La società della stanchezza. Nuova edizione ampliata, nottetempo, Milano, 2020, p. 40.
5. Jennifer Guerra, Il capitale amoroso, cit., p. 37.
6. Jennifer Guerra, Il capitale amoroso, cit., p. 40.
7. Francesco Codello, Né obbedire né comandare. Lessico libertario, elèuthera, Milano, 2009, pp. 114-116.
8. Byung-Chul Han, La società della stanchezza, cit., pp. 47-53.
9. Jennifer Guerra, Il capitale amoroso, cit., p. 35.
10. Guillaume Duval, Disuguaglianza globale, in Alternatives Economiques, settembre 2000, in Internazionale extra | Genova 2001, estate 2021, p. 26.
11. The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Alegre, Roma, 2021, pp. 17-33.
12. Michel Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, Torino, 2018.
13. The Care Collective, Manifesto della cura, cit., p. 33.
14. Christophe Meierhans, Non fare niente sarebbe già molto, perché l’umanità sta lavorando troppo, in cheFare, al link: https://www.che-fare.com/non-fare-niente-sarebbe-gia-molto-perche-lumanita-sta-lavorando-troppo/
15. UN Policy Brief, The Impact of COVID-19 on Women, 9 aprile 2020, p. 13, al link: https://www.unwomen.org/en/digital-library/publications/2020/04/policy-brief-the-impact-of-covid-19-on-women, traduzione personale
16. Oxfam, Time to Care. Unpaid and underpaid care work and the global inequality crisis, gennaio 2020, p. 26, al link: https://oxfamilibrary.openrepository.com/bitstream/handle/10546/620928/bp-time-to-care-inequality-200120-en.pdf, traduzione personale
17. https://www.consiglio.provincia.tn.it/leggi-e-archivi/codice-provinciale/Pages/legge.aspx?uid=22329
18. Legge n. 53/2000 recante le “disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”.
19. https://www.italiachecambia.org/mappa/banche-del-tempo/
20. Jennifer Guerra, Il capitale amoroso, cit., p. 98.