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“Crisi” climatica o “cambiamento”?

Quando si parla di cambiamento climatico, alzare i toni non basta. Per spingere le persone ad agire servono messaggi concreti, pragmatici e propositivi. Lo conferma un recente studio statunitense.

I toni allarmistici, quando si parla di crisi climatica, non vanno più bene: è il tempo di messaggi concreti e propositivi

Nel maggio del 2019 il Guardian ha aggiornato le proprie linee guida editoriali, sostituendo alla parola “cambiamento” climatico i termini “crisi” ed “emergenza” in quanto più “scientificamente esatti”, come ha dichiarato la caporedattrice Katharine Viner. Nello stesso mese Greta Thunberg ha scritto in un tweet: “Siamo nel 2019. Possiamo per favore smettere di dire “cambiamento climatico” e invece chiamarlo per quello che è: collasso climatico, crisi climatica, emergenza climatica, collasso ecologico, crisi ecologica ed emergenza ecologica?”. Questo cambio di direzione non ha riguardato solo i giornali e gli attivisti. Anche i governi, le università e gli scienziati hanno iniziato a utilizzare sempre più spesso il linguaggio dell’emergenza e della crisi per descrivere i complessi fenomeni climatici in atto. Così nessuno si è sorpreso quando l’Oxford Dictionary, sempre nel 2019, ha dichiarato “emergenza climatica” parola dell’anno. 

Ma non è sempre stato così. Prima di “crisi”, e prima ancora di “cambiamento”, il termine più utilizzato era “riscaldamento globale”. Introdotta nel 1975 dal geofisico Wallace S. Broecker, autore del rivoluzionario articolo “Il cambiamento climatico: siamo sull’orlo di uno spiccato riscaldamento globale?”, questa espressione era riuscita a mettere in evidenza la rapidità e la gravità dei mutamenti climatici in corso. Nei decenni successivi, tuttavia, i politici e mezzi di comunicazione cominciarono a usare il termine più morbido ed eufemistico di “cambiamento climatico”. Il clima era diventato una questione politica e divisiva. Bisognava parlarne con cautela. Così, ad esempio, nel 2002 Frank Luntz, consulente politico e sondaggista repubblicano, consigliò a Bush, allora Presidente degli Stati Uniti, di utilizzare “cambiamento climatico” invece di “riscaldamento globale”, perché “meno spaventoso”. 

Le cose sono tornate a cambiare dal 2007, quando il linguista George Lakoff ha proposto di descrivere il cambiamento climatico come “crisi”, per sottolineare la necessità di azioni immediate. Pur con alterne vicende – è sufficiente pensare alla presidenza di Donald Trump, colpevole di vero e proprio negazionismo climatico – questo modello interpretativo si è progressivamente imposto. La presa di posizione del Guardian, imitata da altri giornali, televisioni e agenzie di stampa, lo dimostra. 

“Fare cose con le parole”: il linguaggio influenza le emozioni

Perché le parole sono importanti? Perché parlare di “emergenza”, invece che di “cambiamento”? Sessant’anni fa Marshall McLuhan scriveva che “il medium è il messaggio”. “Emergenza” e “crisi” sono filtri e cornici interpretative che cambiano il nostro giudizio e la nostra risposta al cambiamento climatico. Quando usiamo la parola “crisi”, infatti, pensiamo in modo intuitivo a una rottura temporanea del normale ordine delle cose, causata da un evento traumatico. In modo simile, “emergenza” implica che un dato fenomeno comporta un pericolo significativo, è urgente e in qualche misura inaspettato, e richiede un intervento immediato. Chi caldeggia l’utilizzo di questi termini, quindi, ritiene necessario alzare l’allerta sul cambiamento climatico, nella convinzione che un maggiore livello di minaccia aumenterà la preoccupazione delle persone e la loro motivazione ad agire. Parafrasando John L. Austin, le parole “fanno cose”: influenzano le nostre emozioni, modellano i nostri pensieri e orientano i nostri comportamenti. Ma nel caso del cambiamento climatico, funziona? 

Alzare la posta? Parlando di cambiamento climatico, non basta

Se l’obiettivo di questa revisione lessicale è mobilitare le persone, è importante capire l’impatto reale delle parole “crisi” ed “emergenza” sul pubblico. Il primo studio in materia risale al 2013 ed è stato condotto su un campione di 225 studenti universitari statunitensi, invitati a misurare la propria risposta emotiva alle espressioni “riscaldamento globale, “cambiamento climatico”, “crisi climatica” e “collasso climatico”. Un secondo studio del 2020, invece, ha preso in esame l’attitudine di più di 1.800 cittadini taiwanesi nei confronti delle parole “cambiamento” climatico e “crisi”. I risultati a cui sono giunti gli autori delle due ricerche sono molto simili: utilizzare il termine “crisi”, invece di “cambiamento”, non produce differenze significative in termini di risposta emotiva e di impegno. Anzi, in alcuni casi il linguaggio dell’emergenza e della crisi sembra essere controproducente, perché facilmente tacciabile di esagerazione e di allarmismo da parte di chi è predisposto a minimizzare o respingere il cambiamento climatico. 

Ma se parlare di emergenza è inutile, quali messaggi risultano più efficaci? Per provare a rispondere a questa domanda Lauren Feldman, ricercatrice della Rutgers University, ha analizzato gli effetti dei termini “cambiamento climatico”, “emergenza climatica” e “crisi climatica” su un campione di oltre 2.300 cittadini statunitensi. A differenza dei due studi precedenti, tuttavia, Feldman ha preso in esame un’ulteriore variabile: le brevi notizie su cui gli intervistati erano chiamati a esprimersi si focalizzavano di volta in volta sulle minacce legate al cambiamento climatico – incendi, inondazioni, problemi di la salute pubblica, per esempio – oppure sulle risposte messo in campo dai governi e dai cittadini. I risultati dell’indagine, pubblicati nel novembre del 2021, parlano chiaro: la scelta del termine “emergenza” o “crisi”, al posto di “cambiamento”, non influisce in modo rilevante sul coinvolgimento personale rispetto alla questione climatica; il termine “emergenza”, invece, può persino diminuire la credibilità del messaggio. Più dei termini, conta il punto di vista messo in campo: concentrare l’attenzione sulle azioni, invece che sugli effetti inevitabili del cambiamento climatico, rafforza la credibilità della notizia, favorisce il coinvolgimento personale del lettore, ne aumenta le emozioni positive di speranza e la percezione di autoefficacia.

Oltre la guerra delle parole: è il tempo di messaggi concreti e propositivi

Da un punto di vista scientifico, parlare di “crisi” ed “emergenza” climatica, invece che di “cambiamento”, è più preciso e accurato, perché evidenzia la velocità dei processi in atto e l’urgenza delle azioni di contrasto. Sul piano della comunicazione, invece, insistere sull’elemento negativo e allarmistico sembra essere controproducente, mentre l’impiego di toni più pacati, positivi e costruttivi può spingere maggiormente le persone ad agire in prima persona e a prendere posizione a favore del clima. Di conseguenza, se il primo obiettivo della comunicazione è comunicare, e cioè mettere qualcosa in comune, raggiungere l’altro e farsi capire, la divulgazione scientifica, il giornalismo ambientale, l’attivismo sui social e ogni altra forma espressiva interessata a rafforzare conoscenza e coscienza del cambiamento climatico dovranno optare per messaggi chiari, efficaci, coinvolgenti e propositivi. “L’epoca degli orsi polari morenti è finita”, è stato detto. È tempo che le notizie sensazionalistiche, le immagini emotivamente forti e i toni allarmistici lascino spazio a parole più concrete, più propositive e più responsabilizzanti.

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