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Se gli squali finiscono in ciotola – o nel piatto

Cosa mangerebbero i nostri amici a quattro zampe, se potessero procurarsi il cibo da soli? Mangerebbero i croccantini e la dadolata di pollo, manzo o squalo? Approfondite l'argomento in questo articolo di Anna Molinari, pubblicato su Unimondo

Cosa mangiano veramente i nostri amati compagni a quattro zampe? Cosa vorrebbero mangiare?/ Foto di Piotr Musiol/Unsplash

Ho sempre provato una certa perplessità davanti alla gran parte delle etichette e delle pubblicità riportanti gli ingredienti presenti nelle scatole di cibo per i nostri animali domestici. La domanda ricorrente è: ma se un cane o un gatto dovesse procurarsi il cibo da sé e secondo natura, magari un pollo o un pesce o del mais lo addenterebbe con facilità, ma davvero potrebbe cibarsi di un manzo, un cavallo, un cervo o un maiale? E uno squalo? Già, perché questa è notizia recente che lascia a dir poco dubbiosi. 

Alcuni scienziati dello Yale – NUS College di Singapore hanno individuato in molte delle più comuni marche di cibo per cani e gatti la presenza di specie marine protette, indicate nell’elenco degli ingredienti con un generico “pesce oceanico”: il che significa che il più delle volte, come suggerito da Ben Wainwright e Ian French, due dei ricercatori che hanno seguito lo studio pubblicato su Frontiers in Marine Scienceil consumatore non è al corrente di ciò che acquista e rimane ignaro di ciò che la confezione realmente contiene. E l’aspetto paradossale è che nella maggior parte dei casi chi possiede un animale domestico è tendenzialmente un amante della natura, ed è quindi ragionevole supporre che offrire al proprio amico un macinato di specie protette non sia esattamente quello che vorrebbe o accetterebbe intenzionalmente di fare.

Sappiamo che gli squali non se la passano bene. Ve ne abbiamo raccontato anche noi di Unimondo in qualche occasione, e nel frattempo la situazione non è migliorata: la popolazione di squali sconta una pesca indiscriminata in tutto il mondo e ha subito negli ultimi 50 anni un declino superiore al 70%. Quali predatori all’apice della catena alimentare degli oceani, sono indispensabili per l’equilibrio dell’ecosistema marino e la loro drastica diminuzione ha effetti a catena che arrivano fino alla compromissione delle alghe e delle barriere coralline. E se la vendita di pinne di squalo nel commercio mondiale è ampiamente pubblicizzata, la filiera silenziosa che li utilizza invece per la produzione di cibo per animali e cosmetici rimane lontana dai riflettori e sotto traccia.

Le tracce però i ricercatori le hanno trovate, e lo hanno fatto attraverso il “DNA barcoding”, una tecnica sviluppata per identificare entità biologiche (piante o animali), e basata sull’analisi delle variabilità di un marcatore molecolare, che permette di individuare la corrispondenza utilizzando una piccola sequenza di DNA. Hanno testato 45 prodotti di cibo per animali, provenienti da 16 marchi diversi venduti a Singapore: la maggior parte di essi utilizza in etichetta diciture generiche come “pesce”, o “pesce oceanico”, o “pesce bianco”, con alcune specifiche che si riferiscono a “tonno” e “salmone”. Altri invece non indicano affatto la presenza di pesce. Eppure, dei 144 campioni sequenziati, in circa un terzo è stata rilevata la presenza di DNA di squalo, per lo più della specie Prionace glauca, lo squalo azzurro o verdesca, classificato nella Lista Rossa dell’Unione internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) come prossimo alla minaccia. Ma non è il solo: hanno rinvenuto anche tracce di Carcharhinus falciformis (squalo seta) e Triaenodon obesus (Squalo pinnabianca del reef), entrambi classificati come specie vulnerabili, così come lo squalo donnola (Hemigaleus microstoma), lo squalo dal naso appuntito dei Caraibi (Rhizoprionodon porosus) e lo squalo toro (Carcharias taurus).

I ricercatori suppongono che la carne di squalo possa derivare da carcasse che altrimenti sarebbero dismesse dopo la rimozione delle ben più redditizie pinne – ma si tratta di una supposizione che potrebbe anche essere smentita da una domanda di carne di squalo in via di espansione, anche se di fatto non è molto ricca di proteine e tendenzialmente non fa parte della domanda alimentare per l’uomo. Certo è che, come sostiene l’ecologista Andrew Griffiths dell’Università di Exeter, tracce di DNA di squalo sono state rinvenute anche in prodotti alimentari destinati al consumo umano, come per esempio i “fish & chips così gettonati nel Regno Unito, e quindi a volte l’uomo stesso può ritrovarsi inconsapevolmente a mangiare ciò che, sapendolo, rifiuterebbe.

Quello che ricerche di questo tipo offrono sono evidenze scientifiche che auspicano di diventare le basi per campagne volte a ottenere un’etichettatura più trasparente, in modo da rendere chiaro al consumatore il contenuto e la provenienza di ciò che acquista, dato che al momento la genericità delle regole in questo ambito permette la possibilità di includere specie vulnerabili tra gli ingredienti, e di farlo in maniera legale.

Sarà quindi pur vero che negli anni ci siamo abituati a considerare normali e anzi indispensabili certi menù per i nostri amici a quattro zampe – e anche per noi –, ma arrivare al punto di servire in ciotola o nel piatto specie protette e in pericolo di estinzione appare davvero come l’ennesima follia di cui l’uomo è al tempo stesso perpetratore e vittima.

*Articolo pubblicato su Unimondo

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