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Quando la violenza è anche economica

Un approfondimento sulla violenza economica, prevista dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, e sulla condizione delle lavoratrici dell’industria tessile, molto spesso vittime di sfruttamento sul luogo di lavoro.

La violenza economica e la Convenzione di Istanbul

Si parla molto di violenza fisica e sessuale contro le donne, meno di quella psicologica e meno ancora di quella economica. L’articolo 3 della Convenzione di Istanbul prevede però anche quest’ultima forma di violenza, subdola perché meno visibile e meno conosciuta.

La condizione lavorativa della donna va di pari passo con le disuguaglianze economiche/Foto di R. D. Smith/ Unsplash

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica – questo è il nome completo della Convenzione di Istanbul, dalla quale la Turchia si è ritirata a inizio luglio 2021 – stabilisce che

“con l’espressione ‘violenza nei confronti delle donne’ si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.

Come si traduce nella vita quotidiana delle donne la violenza economica? Secondo il portale d’informazione giuridica “Diritto Consenso”, ci sono tre livelli di violenza economica, che si presenta nelle situazioni in cui la donna non lavora e dipende quindi dal compagno o dal marito: la donna viene esclusa dalla gestione finanziaria; l’uomo non concede denaro alla donna; l’uomo costringe la donna ad erodere il suo patrimonio o a firmare inconsapevolmente documenti finanziari.

Molestie sessuali e violenza sul luogo di lavoro: la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) numero 190

Ugualmente importante è il tema delle molestie sessuali e della violenza di genere sul luogo di lavoro, giuridicamente ancora difficile da inquadrare. Il 25 giugno 2021, però, è entrato in vigore un primo trattato internazionale che vincola gli Stati che l’hanno firmato a intervenire sulla questione: la Convenzione del 2019 sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro (n. 190) dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL). C’è anche l’Italia tra i Paesi che hanno ratificato la Convenzione.

L’accordo, in particolare, introduce la prima definizione internazionale di violenza e molestie nel mondo del lavoro, comprese quelle di genere:

“l’insieme di pratiche e comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, includendo la violenza e le molestie di genere” (art. 1)

E in Italia? È stato presentato il 20 settembre 2021 un disegno di legge (ddl) sulla prevenzione delle molestie e delle violenze sui luoghi di lavoro, depositato dalla senatrice trentina di “Italia Viva” Donatella Conzatti.

L’industria tessile e la violenza economica

Nel 2020, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Campagna Abiti Puliti aveva pubblicato un “position paper”, cioè una presa di posizione, redatta dalla campagna internazionale “Clean Clothes Campaign” – in particolare da FEMNET, che fa parte della rete – con il supporto finanziario dell’Unione Europea e con l’aiuto del Bangladesh Center for Workers Solidarity (BCWS).

L’industria tessile purtroppo ben si presta allo sfruttamento, a causa della natura stessa della catena di produzione: in quest’industria la maggior parte della forza lavoro è costituita da donne, in molti casi immigrate, che ricevono bassi salari – più bassi dei loro colleghi – e sono costrette a ritmi di produzione molto veloci e con contratti precari (quando non lavorano in nero). Raramente poi esistono organizzazioni sindacali che raccolgano le istanze delle lavoratrici dell’industria tessile e, se ce ne sono, sono guidate perlopiù da uomini. Ecco un esempio di violenza economica, che si intreccia anche con altre forme di violenza, se vogliamo “più visibili”, come la violenza fisica e sessuale. Il 75 per cento delle persone intervistate da FEMNET e BCWS (642 in totale), infatti, ha rivelato di aver subito violenza di genere sul luogo di lavoro, incluse molestie e violenza sessuale.

La pandemia di Covid-19 ha aggravato la condizione delle lavoratrici dell’industria tessile, perché inizialmente molti brand hanno sospeso i propri ordini e i pagamenti in corso, il che ha comportato la perdita di lavoro per molte lavoratrici (e lavoratori) del settore.

I brand, secondo il “position paper” di “Clean Clothes Campaign”, dovrebbero pagare di più per i propri ordini e diminuire il numero di collezioni che mettono in vendita ogni anno. Diminuirebbe così anche la pressione sulle lavoratrici dell’industria tessile. Un’altra azione, conclude il “position paper”, è quella di mettere in atto sistemi di monitoraggio per controllare che non ci siano casi di violenza di genere nelle fabbriche dalle quali ci si rifornisce.

 

 

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